A Grand Adventure

Il mio amore, per la lettura prima e, successivamente, per i film e le serie tv, nasce da un bisogno primordiale: quello di provare sensazioni nuove.

Ogni pagina, ogni scena, ogni scatto, ogni scenografia, ogni immagine suscita in me emozioni ben precise mentre sensazioni nuove si mescolano a ricordi di vite che non ho mai vissuto. E come è possibile ricordare qualcosa che non si è mai provato in prima persona? Come è possibile che lo si senta scorrere sotto la pelle, vibrante, carico di scintille, spumeggiante di vitalità? Ebbene, non penso di essere l’unica a cui capiti ma mi ritengo estremamente fortunata quando succede. Mi basta una sigla, le primissime note di un tema d’apertura e io sono catapultata nei panni di una me mai esistita. Una me che potrebbe essere. Una potenziale me.

Ho vissuto mille vite, ho solcato i sette mari, ho scalato montagne e mi sono calata nelle viscere della terra. Ho amato troppi uomini e donne per poterli ricordare tutti. Ho bestemmiato, sono morta. Ho avuto sorelle e fratelli, figli e nemici.

E non smetto di cambiare, come l’acqua di un torrente. Inafferrabile e in costante movimento. Così sono quando leggo un libro, quando mi appassiono ad un personaggio televisivo, quando mi immedesimo nel protagonista di un film. Quanto è calda e avvolgente la sensazione che provo quando ritrovo le pagine tanto amate, quando vengo risucchiata in un mondo che non mi appartiene ma che bramo dolorosamente.

E’ un’avventura. Una grande, immensa avventura.

E voglio continuare a viverla finché avrò aria nei polmoni e terra sotto i piedi.

AL(e)C.

Ti senti mai congelato? Ti senti mai paralizzato? Ti senti mai immobile?

Io si. Io si. Io si.

Se hai avuto già tutto quello che potevi avere, se hai già riempito il cuore fino a farlo scoppiare, se hai già lasciato perdere allora…Fallo.

Vivi l’immobilità, falla tua, lasciala scorrere in te, lascia che ti prenda, lascia che ti culli, lascia che ti scavalchi.

Abbandona i legami, svuota la testa, corri forte e fai cadere tutto sull’asfalto dietro di te.

La musica, le magliette, le foto, i messaggi, le felpe, i baci. Lascia tutto, dannazione.

Perché se hai già avuto tutti e tre i tipi di amore, cosa altro pensi ti possa accadere? Sei così ingenuamente convinta che ci sia altro là fuori per te?

Concentra le tue energie in qualcosa di diverso, di nuovo. Concentra le energie in un tuffo da una scogliera. In un’immersione in apnea. In una scalata. In una planata. Concentra le tue fottute energie, se ancora le hai, in qualcosa. Qualsiasi cosa che non siano loro.

Passione devastante. Concetto idealizzato. Piccole cose.

Mandali a fanculo e concentrati su qualcosa. Qualsiasi cosa ho detto.

 

Conversazione di due cuori calibrati.

Scena Uno.

Un punto non ben precisato di una città non ben precisata. Una ragazza seduta, un ragazzo che cammina.

 

“Ciao.”

“Ciao!” La abbraccia. Poi, tenendole la mano si allontana un po’, per guardarla bene.  “Non sei cambiata affatto dall’anno scorso. Ti stanno meglio così i capelli, però.” Sorride.

Sorridono.

“Dove andiamo?”

“Ti va una birra? Vorrei bere qualcosa.”

“Perché no? Andiamo.”

Seguono inutili convenevoli.

 

Scena Due.

La coppia di giovani è ora seduta al tavolo di un pub, ognuno con una birra davanti.

 

“Sei impegnata, lo so.”

“Si, da quasi tre anni. Lo ritengo un record personale.”

“Quindi ora te la darai a gambe?”

“Forse. E di chi è la colpa?”

Seguono risate. E altri stupidi convenevoli.

 

Scena Tre.

Il giovane è alla guida di una piccola automobile. La ragazza gli siede vicino. Il giovane parcheggia.

 

“Mi dispiace. Ho sbagliato tutto. Abbiamo sbagliato tutto. Mi chiedo se si possa tornare indietro, se possiamo provare ad aggiustare le cose.”

“Adesso? Ma sei ubriaco?”

“Dai, lo sai cosa intendo. Non verrà mai un’altra. Una come te. Che possa essere così…come sei tu…per me.”

“Io credo tu abbia bevuto. Oppure sei impazzito.”

“Ho capito, non ti va di parlarne. Ma io…” Ha gli occhi brillanti. Non lucidi, brillanti. Come se fosse triste, ma anche folle.

Allunga la mano verso i capelli di lei. Scosta una ciocca dal viso. Poi la rimette a suo posto, come se non avesse dovuto permettersi un simile gesto. Così intimo.

“Sì. Anche io. E sì, non voglio parlarne. Ora andiamo, voglio andare a casa.”

Press send.

Ti scrivo con l’inchiostro nero dei rimorsi.

Ti scrivo con la carta bianca dei rimpianti.

Ti scrivo, piego il foglio, lo infilo in una busta e poi la chiudo in una scatola che forse non riapriró. 

Scusa. Dopo tutti questi anni, dopo tutta quella rabbia, dopo tutto l’amore…scusa. 

A lui non ci penso più. Non come penso a te. Il che la dice lunga sul significato di entrambi. 

Tu eri amore…malato, distorto, sanguinario, ma amore.

Lui era pura possibilità. Era l’ancora di salvezza, era il futuro, era tutto. E proprio per questo si è dimostrato niente.

A te ci penso. E a te ora chiedo scusa. L’abbiamo fatto innumerevoli volte, dopo esserci azzannati al collo, dopo esserci trafitti con lame affilate dritte nel cuore, dopo esserci sfondati il cranio, dopo esserci soffocati…ci siamo chiesti scusa. A questo punto avremmo dovuto perdere di credibilità, quantomeno. Invece no, ci crediamo ancora, io lo faccio, credo nel potere catartico di uno “scusa” che parte dal profondo.

Uno “scusa” viscerale. 

Ho rovinato tutto. Tu hai rovinato il resto. E insieme ci siamo amati e rovinati.

Ora non posso che augurarci di poterci aggiustare. Un pezzo alla volta.

Il mago

Per tornare a scrivere serviva che qualcosa andasse terribilmente storto.

E così è stato.

Ad andare storto è stato il mio cervello.

Organo potente il cervello. Peccato che capiti, ogni tanto, che non si riesca bene a gestirlo. Come quando d’improvviso fa riaffiorare sentimenti che non ricordavi più…

La potenza è nulla senza il controllo e noi, senza il controllo sulle nostre emozioni e sui nostri pensieri, siamo fondamentalmente delle amebe.

È così che mi sento ora. Un’ameba. Un’ameba con un bagaglio troppo pesante ed ingombrante.

Da una frase in me si scatena l’inferno. Lui torna a ferirmi, a cercare di annientarmi, mentalmente. Non potrò mai sapere se davvero lo fa involontariamente. Ma conterebbe davvero qualcosa? Mi farebbe sentire meglio sapere che lo fa involontariamente?

Probabilmente no.

Cerco di chiudere, una volta per tutte. Già sto meglio, mi dico. Mi congratulo con me stessa, mi do finte pacche sulla spalla in segno di vittoria.

Ma è solo un’illusione. Fugace e ingannevole.

Lui riprende il manico del coltello e questa volta lo infila fino in fondo, cercando di sventrarmi, una volta per tutte.

“Scusami, sono ubriaco, ho già detto troppo.”

La testa mi gira, il cuore mi sta per esplodere nel petto e io non capisco più se sono arrabbiata o triste.

Rimando.

Rimando ancora.

Poi, quasi per caso, ritrovo le lettere dell’altra persona che mi ha messo in questo casino.

E ancora, a distanza di anni, sento troppo.

Mi vanto sempre di essere in grado di chiudere. Di dare un taglio. E da un lato è profondamente vero. Non mi butto giù, mi rimbocco le maniche e ricomincio da dove avevo lasciato. Cerco di migliorarmi, di conoscermi, di esplorarmi. Cerco di non ripetere mai due volte lo stesso errore.

Ma è impossibile se l’errore non siamo noi a commetterlo ma è lui a trovarci. I miei due errori mi trovano sempre. E quando lo fanno io sono loro schiava. Mi annullo e divento un tutto col ricordo, col rimpianto e con ciò che è stato perduto.

Devo solo trovare il modo di non farmi più trovare.

Devo sparire.

Come un bravo illusionista o, ancora meglio, un mago.

La truffa di Amore.

Ho incontrato Amore più volte.
Era sempre vestito diversamente, a volte andava di fretta, a volte aveva voglia di chiacchierare… Io cercavo di convincerlo a restare, almeno per un po’, giusto il tempo di una passeggiata al mare ma lui aveva sempre di meglio da fare.
Fino a che, un giorno, ho scoperto che era un truffatore. Si spacciava per Amore ma il suo vero nome era Desiderio. 
Amore, quello vero, era timido ma fermo nelle sue decisioni. E soprattutto non aveva mai fretta di allontanarsi da me.

Unopiùunougualeinfinito (a volte).

Improvvisamente. Infinitamente. Immensamente.

NOI.

Io e te. Tu ed io. Dove io=tu=1. E la somma fa ∞.

Che, sebbene matematicamente scorretto, è proprio vero.

Singolarmente siamo normali. Forse svegli, a tratti attraenti, magari in gamba,  a volte simpatici, sporadicamente intelligenti.

Ma sommati siamo tutto.

Siamo il totale. E se togli un addendo, il risultato, onestamente, va a puttane.

Mi sconcerti, mi sconvolgi, mi tranquillizzi. Mi ami, ti amo.

Serve altro?  A me, per ora, decisamente no.

#NP Vorrei…Te.

E lo vorrei. Con la “r” moscia, quella di Guccini.

Una canzone che non ho mai sentito prima ma che mi sembra di aver scritto.

E mi sento capita. E mi sento viva. E mi sento nuova.

E mi sento anche vecchia, o meglio, d’altri tempi.

E piango. Piano piango. E non so perché. Perché piango intendo. Ma poi non so nemmeno perché si piange, anima mia, davvero non lo so. E tu, dimmi, piangi?

La remota possibilità di raggiungerti, toccarti, averti, sentirti. La remota possibilità di diventare il mio sogno di donna. Ché donna sono e donna son sempre stata, anche quando ero bimba.

E mi manchi, qui, sotto questa immensa coperta bianca, in mezzo a questi enormi morbidi cuscini, nel mondo reale, tu, ora,  mi manchi.

Ma nel mio mondo, quello mio davvero, quello dei sogni, quello tangibile come il sapore dei tuoi respiri e il colore dei miei battiti, tu ci sei sempre.

“E lo vorrei
perchè non sono quando non ci sei”

Ma tu ci sei. Sempre. E forse sei sempre stato qui. Anche quando ancora non c’eri. E ci sei. Ci sei. Ci sei sempre. E io lo vorrei, ma già ci sei.

Dalla gargalesi alla knismesi: sublimazione di due corpi.

Termini medici per indicare corpi che si toccano in quella strana e forte forma di contatto che è il solletico. Ma il termine per ciò che noi abbiamo fatto, ahimè, non c’è.

Dove finiscono le tue dita comincia la mia pelle, che si scioglie in un brivido, al tuo leggero tocco.

Dove finiscono le tue labbra inizia il mio respiro, interrotto da forzate pause di riflessione.

Dove finiscono le tue spalle inizia il mio seno.

Dove finisce il tuo corpo inizia il mio piacere. E il mio terrore.

Una notte fresca d’estate, poche stelle, luci che si spengono qua e là, la sabbia in ogni piega dei vestiti,  il reggiseno mi stringe, la voglia di vivere mi pervade.

E anche la voglia di te inizia a farsi sentire.

E anche la tua voglia inizia a farsi sentire.

Mi hai sfiorato così a lungo da far male. Mi hai stretta in una morsa indescrivibile di crescente desiderio. Mi hai sublimato.

E ora sto qui, mentre mi si accappona la pelle al pensiero del mostro che sei diventato, capace di umiliarmi con una superficialità inconsueta e ignorarmi come se avessi fatto qualcosa di indicibile.

Che poi, se amanti non vogliamo, se amici non possiamo, che opzione ci rimane?

Continuare a saltare da un letto all’altro, in attesa che prima o poi qualcuno si faccia un po’ più in là e ci lasci riposare.

Ecco, l’ho detto.

Non esiste niente di più di quello che abbiamo noi.

Niente di più perfetto.

Niente di meno corrotto.

Niente di più forte.

Mi costa togliermi i miei vestiti più scuri e pesanti e lasciarmi andare a tale dichiarazione d’amore. Perché questa è proprio una dichiarazione d’amore, in fondo. Amore per la vita e quindi per voi, che la mia vita la costruite, la costellate e l’animate da mattina fino al tramonto. Tra le liti, le bocche storte, i silenzi e le incomprensioni. Le cose che ci fanno scervellare, le urla e le frustrazioni.

Ma soprattutto le risate. Gli abbracci non richiesti. Le risate allegre. I sorrisi che illuminano la stanza. Le risate sguaiate. Gli occhi lucidi. Le risate che ti scuotono. I balli scatenati. Le risate sommesse. Le frasi non dette ma risapute. Le risate squillanti.

E tanto, tanto, tanto ancora.

Noi 4. Voi 3. Loro 2. Io. E si riparte.

Ecco, l’ho detto. Ora fatemi tornare la stronza acida di sempre.

Che mi viene da ridere se ci penso troppo. E anche voglia di menarvi, in certi casi.